CARIDDOTI, NON FAROTI

CARIDDOTI, NON FAROTI

Da Giuseppe Rando riceviamo e pubblichiamo:

“Noi nativi di Torre Faro, quando eravamo ragazzi e andavamo a scuola, sentivamo molto la distanza dalla città di Messina (quindici chilometri!): già il viaggio in autobus, della durata di mezz’ora, era un intervallo troppo lungo tra l’uscita di casa e l’ingresso al “Galatti” o al “Gallo” o al “Nautico, o al “Tecnico” o all’ “Industriale” o al “Maurolico”; per non dire di quella mezz’ora di sonno che ci veniva rubata ogni mattina, proprio nell’età in cui il sonno è più dolce.

Avevamo peraltro la sensazione netta – che non era ancora coscienza di classe – del fatto che i messinesi e i nostri compagni messinesi fossero consapevoli del privilegio di abitare in città e di non essere costretti alle effettive «odissee» dei poveri faroti o ganzirroti, sentendosi, per certi versi, migliori. A tale presunzione noi rispondevamo, invero, considerando rammolliti o femminucce i ragazzi di città, magari esibendo nostre, altrettanto presunte, valentie.

La verità, storica e sociologica, era che, nel mondo ancora chiuso, provinciale, premoderno dei primi anni Sessanta, la distanza tra la città e i villaggi viciniori era davvero notevole. Tanto che i messinesi praticamente ignoravano Torre Faro e mostravano di conoscere solo Ganzirri (per loro, “faroto” e “ganzirroto” erano, fino a ieri, sinonimi), dacché a Ganzirri venivano a comprare o a mangiare le cozze e da Ganzirri giungevano i «cocciulari» che vendevano le «cocciule» (le vongole) per le vie della città.

Sono passati sessant’anni e il mondo è radicalmente cambiato.
Ora, le distanze sono state annullate dalle automobili – anche più di una per famiglia (non povera) – e dai motocicli, tanto che non si avverte più la distanza dei villaggi rivieraschi dal «centro» e non pochi «signori» di città si mostrano orgogliosi di abitare in villa a Torre Faro o a Ganzirri. Insomma, Torre Faro o Ganzirri non sono più l’infima periferia nord di Messina, ma rappresentano il fiore all’occhiello per la città e per i messinesi, la meta preferita, quantomeno, dei loro tours culinari o delle loro gite al mare. Meglio tardi che mai.

Ma sembra ancora sfuggire ai messinesi e soprattutto agli amministratori messinesi l’importanza storica, culturale, paesaggistica – nonché l’enorme potenzialità turistica – di Capo Peloro, che è (non da oggi) un luogo davvero unico nell’orbe terracqueo.
Manca in effetti, da settant’anni almeno, una saggia politica di conservazione e valorizzazione del luoghi (delle spiagge, delle colline, del lago). E manca soprattutto un basilare intervento di recupero della denominazione originaria del sito: Torre Faro è, in realtà, un nome posticcio, attribuito, nel Settecento, al villaggio, come Torre di Faro (cioè di Faro Superiore), quando divenne una parrocchia autonoma (rispetto a quella di Faro Superiore) della diocesi di Messina; il nome vero, autentico, originario di questo sito impareggiabile è Cariddi, dapprima adottato da Omero nella sua Odissea, e conosciuto in tutto il mondo insieme con quello, indissolubile, di Scilla.

Ora, non si capisce perché il nome di Scilla si sia conservato intatto nel corso dei secoli, in Calabria, mentre quello di Cariddi è scomparso, in Sicilia. È ormai tempo, ad ogni modo, che Cariddi si riappropri del suo nome vero.

E ciò, non solo, per rigore filologico, ma anche e soprattutto per la forte risonanza turistica, pubblicitaria che ne deriverebbe. Scilla e Cariddi costituiscono, in effetti, un’endiadi nota anche in Papuasia, laddove Scilla e Torre Faro non dicono niente a nessuno.

Si pensi, a un (non ipotetico) dialogo tra due cittadini facoltosi, in Finlandia.
– Dove vai, quest’estate, in vacanza?
– A Torre Faro.
– Dove?
Ma mettete Caridddi, al posto di Torre Faro.
– Dove vai, quest’estate, in vacanza?
– A Cariddi.
– Oh! Scilla and Cariddi. Beatiful, Omero, Ulixes. Dante, Horcynus, the «nest cariddoto», the «cariddoti». Ci veniamo anche noi.
E, a proposito di Horcynus Orca: i messinesi morirebbero d’invidia, se i faroti diventassero improvvisamente, e giustamente, cariddoti, come li chiamò Stefano D’Arrigo. O no?

P. S. Valga, questo articoletto, che invio anche al sindaco e ai suoi assessori, nonché al Presidente del Consiglio Comunale, come proposta di un cittadino innamorato della sua città e desideroso di contribuire alla sua rinascita (anche turistica).

Foto di Domenico Ruggeri

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